Il banchetto rinascimentale a Villa D'Este
Le magnificenze a tavola della famiglia d'Este.
( Mauro Gaudino Copyright © 2012 )
Che l’arte del convivio avesse trovato proprio
nel rinascimento la sua massima espressione, lo testimoniano numerosi scritti
storici tra cui il famosissimo “Il Trinciante”scritto nel 1581 da
Vincenzo Cervio, trinciante appunto di Casa Farnese.
Il trinciante, cioè l’arnese usato in cucina
dai cuochi per tagliare con precisione la carne era, durante il rinascimento,
anche un mestiere che consisteva nel saper tagliare le carni a seconda del
desiderio e gusto del padrone di casa.
In questo trattato l’autore fa capire bene
quanto nel rinascimento la potenza e la ricchezza del signore veniva esaltata
nel convivio. Assieme alle numerosissime portate che andavano dalle carni alle
verdure, ai frutti, alle sculture di zucchero, esisteva un suggestivo impianto
scenografico dove musiche e spettacoli contribuivano a l’immagine di grandezza e
potenza del nobile.
Per darvi un’idea di quali protocolli erano in
uso nei banchetti dell’epoca, leggete questo passo tratto dal “Il Trinciante”
di Cervio, particolarmente significativo riguardo le indicazioni su come servire
cardinali: “Questa tavola la vuole almeno due scalchi e dui trincianti, con
dodici gentilomini scudieri che portino in tavola. Due credenzieri con due
aggiunti e due garzoni; un bottigliere con due garzoni che continuamente vadino
per vino, neve e acqua fresca inanzi e in dietro, dove farà bisogno con
prestezza. Una cucina secreta sola per li cardinali, con dui cuochi, due
aggiunti e due garzoni e un pasticcere col suo aiutante…”
Particolare importanza rivestiva la figura
dello “scalco”, un cerimoniere che organizzava il menu,
l’approvvigionamento degli ingredienti e la sequenza delle portate in tavola (in
sostanza l’attuale Chef). Aveva anche la funzione del nostro direttore di sala,
poiché organizzava il personale e decideva sulla cadenza del servizio in tavola.
Il “trinciante” si preoccupava di
tagliare le carni (ma anche altri cibi) in “aria”, cioè prendere il pezzo di
carne con il forchettone e tenerlo sospeso in aria mentre che con il coltello
provvedeva a tagliane i pezzi che lasciava cadere in un grande piatto
circolare. Successivamente il piatto veniva posto al centro della tavola dove i
partecipanti al simposio potevano servirsi in abbondanza di porzione in
porzione, in quanto all’epoca non essendovi l’abitudine all’uso di posate, le
vivande dovevano presentarsi ai commensali già pronte in bocconi facili da
masticare e deglutire.
I commensali inoltre non venivano dotati di
contenitori per le bevande, perché queste venivano offerte da paggi in coppe a
chi ne facesse richiesta, non prima però che un coppiere in seguito ad un
assaggio, indicava al bottigliere la giusta miscela di acqua e vino da versare
nelle coppe.
La tavola del ricco quindi non solo si
presentava con prelibati cibi, bevande ed immancabili sculture di zucchero, ma
anche con sofisticata apparecchiatura, personale di servizio e scenografie di
musici e teatranti.
L’arte italiana
del banchetto era apprezzata in tutta l’Europa rinascimentale e veniva
ampiamente documentata in trattati come quello del 1560 di Domenico Romoli un
“gentiluomo di Firenze”, dove parla “Dell’ufficio dello Scalco, de i
condimenti di tutte le viuande, le stagioni che si conuengono a tutti gli
animali, vccelli, & pesci, Banchetti di ogni tempo, & mangiare da apparecchiarsi
di dì, in dì, per tutto l’anno a Prencipi. Con la dichiaratione della qualità
delle carni di tutti gli animali, & pesci, & di tutte le viuande circa la
sanità. Nel fine segue un breue trattato del reggimento della sanità” . Ma
anche nel trattato del sig. Gio Rossetti maggiordomo di Lucrezia d’Este,
duchessa d’Urbino, dove addirittura arriva a trattare oltre dei banchetti
all’italiana anche di quelli francesi e tedeschi, senza rinunciare a scrivere
una serie di ricette utilizzando “ tutti i tipi di animali e verdure” usate
all’epoca. .
L’eccellenza
italiana nei banchetti era riconosciuta in tutta Europa e sempre Vincenzo Cervio
nel suo “Il Tranciante” vi riporta la fama di una scuola romana, dove si
poteva apprendere l’arte di trinciare la carne “in aria”.
Il banchetto rinascimentale, ricco di credenze con sculture in zucchero,
tovaglioli abilmente piegati ad arte, saliere, coltelli, fiaschette, piatti e
vasi da pompa in ceramica e metalli preziosi che adornavano le tavole dei ricchi
banchetti, determinando la potenza del nobile signore, era molto in voga a Villa d’Este, in quanto tutta la famiglia del Cardinale Ippolito II
d’Este Governatore di Tivoli dal 1549 e creatore della Villa, a partire dallo
zio Ippolito d’Este Cardinale di Ferrara, gastronomo d’eccellenza (morì a causa
di un’indigestione di gamberoni nel 1520) , era nota per il fasto dei banchetti.
Memorabile fu quello che terminò i festeggiamenti del matrimonio del fratello
maggiore di Ippolito II con la figlia di re Luigi XII, cioè Ercole II d’Este
(dotto in alimenti) il 29 novembre a Ferrara, in cui la magnificenza delle
portate e del loro incalzare fu un episodio storico tra i fasti della più
profusa scienza gastronomica, la quale raggiunse l’apice proprio a Ferrara, con
Christoforo Messisburgo (Cristoforo da Messisburgo), scalco alla Corte
Estense a Ferrara al servizio dell’“ illustrissimo et reverendissimo signor
don Hippolito da Este, cardinale di Ferrara”, fatto Conte Palatino da Carlo V il 10 gennaio 1533, il quale scrisse
il trattato “Banchetti compositioni di vivande, et apparecchio generale”
pubblicato postumo nel 1549 (cioè l’anno successivo della sua morte avvenuto per
l’appunto nel 1548) dall’allora Duca d’Este Ercole II, da dove si evince
chiaramente l’organizzazione e l’apparato dei banchetti nobiliari
rinascimentali. Un’opera di particolare rilievo, che ha meritato numerose
ristampe anche prossime ai nostri giorni, che è all’origine della cucina
italiana.
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